Storia di un’ascesa al trono

Ho vissuto gli ultimi punti di Italia-Polonia (o Polonia-Italia forse, boh fate voi) in una specie di trip allucinogeno in cui mi pareva di essere dentro il bianconiglio dei Jefferson Airplane. Non comprendevo ciò che stavo vedendo, divorata dall’ansia e incredula nel pensare che finalmente avrei visto l’Italia trionfare in un mondiale a un’età idonea per capirne la grandezza.
Ho passato il torneo a dire che la squadra non mi pareva pronta per la zona podio, che tutto sommato ci stava come fase di transizione, l’età media molto bassa e l’enorme potenziale ci avrebbero comunque permesso di arrivare al 2026 al nostro apice.

Qualche sera fa ho rivisto i quarti contro la Francia, partita che avevo preso in corsa e dopo la quale sono certa di aver vissuto la mia prima esperienza di pre-morte. Un match tecnicamente non proprio ineccepibile, ma vinto di testa, ed è innegabile che la consapevolezza acquisita dopo quel botto sia stata cruciale per quello che è successo dopo.

Mi sono detta per giorni che è stato un miracolo sportivo, adesso che mi è un po’ scesa la sbornia penso di no. C’è troppa razionalità per parlare di miracolo, non ci si può affidare al misticismo quando una squadra consegna certe dimostrazioni di superiorità e fa pace con i suoi difetti, accettandoli ma senza subirne conseguenze irreversibili.

Semplicemente, l’Italia di De Giorgi si è stancata di stare in sala d’attesa un po’ prima del previsto. Perché diciamocelo, un pensiero sulla futura vetta del pianeta all’apparire di un autentico crac come Alessandro Michieletto ce l’abbiamo fatto tutti, che prima o poi sarebbe successa una cosa (semicit.) lo sapevamo tutti, ma appunto pensavamo di goderne i frutti più avanti.

Questa Italia a conti fatti ha vinto un mondiale con una maturità quasi imbarazzante. Dagli ottavi in avanti è andata in progressione, prima mentale (Cuba e soprattutto Francia, come detto), poi tecnica, un percorso poi sfociato nel capolavoro di domenica scorsa nell’astronave-amuleto di Katowice.

La storia di questo mondiale, però, ha radici antiche, risalenti a poco più di sei anni fa, quando un ragazzetto di vent’anni lasciò il palazzetto di Rio De Janeiro in una valle di lacrime giurando a tutti che prima o poi quell’argento al collo sarebbe diventato un oro.

Che Simone Giannelli fosse un predestinato non devo certo dirvelo io, basta comprendere due fondamentali di questo sport per capirlo. Questa cosa l’ha sempre saputa anche lui, perché i predestinati sono – giustamente – consapevoli di esserlo. Allo stesso modo, sanno che dal momento in cui si manifestano non verrà più loro perdonato nulla, men che meno una finale olimpica giocata male a vent’anni.
Credo che a Giannelli quella finale, domenica sera, sia apparsa più di una volta, che non aspettasse altro che l’occasione buona per esorcizzarla definitivamente. Sì è vero, c’erano stati prima gli europei 2021, ma valevano giusto come prova generale, serviva un palcoscenico enormemente più grande e significativo e un percorso molto più complesso all’interno del torneo.
Serviva tirare fuori una prestazione celestiale nella partita – fin qui – più importante della carriera per allontanare quegli spettri, per confermare la sua magnificenza dopo le mediocri finals di VNL e un pre-mondiale dove molti lo avevano messo in discussione.

Giannelli è un magistrale giocatore d’azzardo, che spesso cammina sul limite. In finale ha volontariamente sacrificato le percentuali dei suoi centri usandoli come esche per togliere sicurezza a quelli polacchi, spostandoli a piacimento per aprire varchi ai suoi esterni; ha spremuto Daniele Lavia come un limone sapendo di poterlo fare, perché da due settimane stava camminando sulle acque come un Gesù Cristo pagano; ha motivato un Michieletto non al top perché aveva bisogno di lui, del suo essere decisivo (gliel’ha proprio detto in un labiale intravisto a inizio quarto set); ha dato fiducia piena e incondizionata a Romanò, su cui non so più cosa dire perché poche volte ho visto una solidità del genere (mentale prima ancora che tecnica). Il suo inumano senso del campo lo ha mandato a punto come e meglio di un attaccante di ruolo (qualcuno dirà protagonismo, io dico che se lo può ben permettere), ma soprattutto, in osmosi con uno straordinario Ferdinando De Giorgi, ha trasmesso serenità a un gruppo che lo venera come capitano indiscusso.

In un post subito dopo la vittoria Fabrizio Monari ha scritto che, da quando a Giannelli sono state date le chiavi di questo gruppo, arriviamo sempre in fondo. È un dato di fatto incontrovertibile, che non fa altro che rafforzare l’idea che a Simone servisse la leadership per farlo esprimere appieno, perché tenere il timone gratifica il suo ego (giustificato), fa parte di lui e non affidarglielo significa strappargli un pezzo di cuore, e strapparlo a me, perché da quel maggio del 2015 a oggi ho sempre avuto le lacrime agli occhi ogni volta che l’ho visto toccare palla. Ora che a poco più di 26 anni ha messo un piede nella storia, dico ancora più forte che la storia può pure riscriverla. Dove e come, ce lo dirà il tempo.

Cosa ci è rimasto, dopo una settimana?

Direi anzitutto un racconto imbarazzante. Al di là di copertine di giornali non pervenute, sconcerta il vuoto abissale dei (non) narratori di questo sport, fermi alla retorica dei bravi ragazzi, agli articoli da chiodi sulle vite private dei giocatori (fun fact: è il 2022, esiste Instagram e a raccontare le loro vite ci pensano già da soli), alle facce pulite.
Cristo santo, pare che abbiamo vinto un mondiale per aver preso 10 in condotta alla scuola elementare.
Eppure questa squadra è piena zeppa di storie da raccontare, di personalità sfaccettate, di paradossi (quello di Romanò su tutti), ma ogni volta non si va oltre lo sterile cabaret, gli slogan da labellaitalia rimasticati, le polemicucce su Zaytsev (ANCORA!), su chi fa vedere di più cosa (il come si faccia vedere la cosa, quello nessuno se lo chiede mai).

Questo trattare i giocatori della nazionale italiana come se fossero membri di una boyband svilisce totalmente l’aspetto competitivo di questo sport, che abbiamo visto spesso a livelli enormi nei 17 giorni di mondiale. Non si fa nessun peccato a dire che l’Italia di De Giorgi è una squadra di grande cattiveria agonistica, che si manifesta anche in escandescenze pienamente rientranti nelle regole del gioco (vedi Francesco Recine che dopo una provocazione di Fornal a Giannelli avrebbe addentato il posto 4 polacco alla giugulare) e non si offende nessuno se si dice che questo gruppo di stronzetti nel giro di meno di un anno ha ribaltato il sugo sulla tovaglia candida della pallavolo internazionale.

Dobbiamo tenerci l’epica e il romanticismo per noi. Chissà se prima o poi, anche su questi lidi, fischierà il vento.

31 canzoni per un viaggio

Le parole che seguono sono pesantemente influenzate da due libri, uno letto quasi vent’anni fa, l’altro in tempi molto recenti. Rispettivamente, l’ovvio 31 Songs di Nick Hornby e l’ancora più bello Mytunes di Maurizio Blatto. 

Nell’ultimo periodo sono stata in macchina più del solito (poco). Non concependo di base un volume che non sia atroce – cosa che penso sgretolerà il mio udito nel giro di un paio d’anni – ho quasi mandato a friggere l’autoradio saltando da una playlist all’altra, approfittando delle possibilità offerte dalla tecnologia nonostante il vetusto impianto della Yaris (God Bless Cavo AUX).

L’immagine di copertina è tratta da Sunchaser di Michael Cimino (1996), che per la cronaca è un film meraviglioso.

Le 31 canzoni scelte sono qui sotto. O volendo tutte a questo link.

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Breve compendio di enogastronomia punk

Premessa: la cucina è quanto di più distante da me. In condizioni normali a casa non pranzo mai, ceno sì e no tre volte alla settimana, in dispensa ho solo la sopravvivenza per colazione e nel mio frigo si sente ancora l’eco di quando quattro anni fa ho tirato giù una madonna per aver rotto un uovo (crudo, ça va sans dire). Nonostante ciò, complice un’ipercolesterolemia congenita e un riscoperto senso della salute, sto mediamente attenta per almeno cinque giorni su sette (facciamo quattro e mezzo). Se mi ci impegno me la cavo pure, ma appunto non mi ci impegno.

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La canzone che non c’era

Se si è fan di un gruppo/artista, arrivati ad un certo punto ci si trova inevitabilmente a fare i conti con una fame bulimica di cose da sapere sull’oggetto delle nostre attenzioni, creando questo circolo del “più ne hai più ne vuoi” finché non si arriva a un punto di saturazione che fa pian piano appiattire la curva, per usare un’espressione assai nota nelle ultime settimane.

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Riapro casa

My God it’s been so long
Never dreamed you’d return

Ho deciso di riaprire casa, di riprendermi questo spazio, non sapendo esattamente quale sarà il suo percorso.

I motivi sono essenzialmente due:

– Mi sono rotta il cazzo. La quarantena forzata sfida anche chi è abituato a passare tanto tempo in casa vivendo solo, questo perché, se prima si trattava di una scelta deliberata, ora lo si deve fare per senso civico e necessità. Fino a poco più di un mese fa la decisione di travestirti da larva mangiando la peggio monnezza sul divano il sabato sera era ciò di cui ti vantavi con i colleghi il lunedì mattina successivo, non senza tradire quel compiacimento forzatamente nerd e antagonista della social life così tanto autoreferenziale.
“Che manna il distanziamento sociale, finalmente nessuno che mi rompe i coglioni”. No tesoro, il telefono rompe i coglioni uguale e con i videoaperitivi ti alcolizzi più di prima.

– Non voglio perdere tempo a lamentarmi di essermi rotta il cazzo. L’isolamento fa sì che tu ti metta in pari con un sacco di cose; voglio dire, quando mai abbiamo avuto tutto ‘sto tempo per ascoltare dischi, leggere, guardare film-serie-documentari su settantacinque piattaforme diverse, seguire webinar e lezioni on line per giunta a sbafo? Sono quelle cose a cui ti aggrappi per esorcizzare la preoccupazione e non incazzarti costantemente con le circostanze, i tuoi 48 mq + balcone di libertà, il tuo ufficio che ti manca in una maniera che nemmeno un fidanzato nuovo.

Scrivere per me è una bellissima cosa, in realtà non ho mai capito se so veramente farlo, ma il punto è un altro.

Di cosa parlo?

È la domanda fondamentale che mi sono posta quando ho deciso di riaprire (tipo 12 ore fa).
Il blog è nato su un’impronta esclusivamente pallavolistica, ma ammetto di non avere stimoli a parlare di uno sport fermo e di una Superlega che nell’ultimo anno ho trovato abbastanza distante e deprimente. C’è una cosa che voglio affrontare, ma rimando a (come) Tokyo, quando sarà ora. In ogni caso niente del passato è stato cancellato, trovate tutto riassunto qui.

Ho due-tre idee in testa, alcune parzialmente sviluppate, che immagino – ognuna di esse – come monografia di qualcosa/qualcuno e che spero mi aiutino a capire quale direzione prenderà questo posto. Nel weekend dovrebbe uscire qualcosa, comunque.

Nel frattempo, ben ritrovati.

PS: ho realizzato qualche giorno fa di essere nata nello stesso anno di Zen Arcade. Oggi questa cosa l’ho messa pure in bio e mentre chiudevo queste righe sgaffe c’avevo su Turn On The News. Toh.

Cambio casa

Come anticipato durante l’estate, ci sono stati diversi lavori in corso che hanno riguardato questo spazio e la mente malata che lo cura.
Ebbene sì, si cambia casa. 
Tranquilli, questo blog NON chiuderà, sarà solo “traslocato” in altra sede a mezzo pulmino hippy alimentato a moscow mule.
So di aver promesso, ormai mesi fa, una panoramica su Mia, l’ormai noto premio Pulitzer dell’estate pallavolistica, ma la vita mi ha portata ad occuparmi di troppe cose in una volta per recensirlo come avrei voluto. Forse ci ritornerò, per chi non ha mai affrontato il capolavoro in questione posso già anticipare che siamo sui livelli stellari di Amore Eternit, ma con una differenza sostanziale.
Amore Eternit è scritto meglio.

Con questa riflessione intellettualoide e piena di speranza vi lascio e vado a fare fagotto verso Civitanova.
Il nuovo indirizzo di casa Break Point sarà comunicato a breve.

A presto, amici.

La Redazione. Cioè io.

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